BEATLES: “No reply” 1964
I tried to telephone,/they said you were not home./That’s a lie./ No reply,/no reply – Ho provato a telefonare,/mi hanno detto che non eri in casa./Questa è una bugia./Nessuna risposta,/nessuna risposta.
Questa prestigiosa e avveniristica sede della Telecom/Tim, edificata su un’idea del 1984 dell’architetto Egidio De Grossi, si annuncia prepotente con l’audace colore del frontale verde acido, che introduce ai sei piani della struttura retrostante. Questi si ripetono in quattro grossi corpi, disposti in modo da assecondare il corso della collina su cui sorgono. All’interno del complesso sono presenti diverse vastissime aree destinate a parcheggi di varie dimensioni e collocazioni, tutti attrezzati con collegamenti a terra o sospesi al coperto, concepiti per assicurare la capienza per i 525 dipendenti che struttura ha ospitato nel momenti di picco dei suoi occupati. Oggi il sito rappresenta un mastodontico monumento allo spreco, ma come si è arrivati a questo punto? La storia ne ricalca altre riferite al periodo delle privatizzazioni all’italiana, che prendono avvio alla fine degli anni novanta e proseguono lungo tutto il decennio successivo. Il complesso Telecom, inaugurato nel 1992 con ancora lo storico marchio Sip (Società Italiana per l’esercizio telefonico), due anni dopo si trasformò in Telecom Italia. Nel 1997 col progetto Supersip la finanziaria Stet e Telecom Italia vennero a loro volta fuse e, con Guido Rossi (fidatissimo sodale dei Moratti-Tronchetti Provera) alla presidenza, la società venne privatizzata con la vendita del 35,26% del capitale e la quasi totale uscita del ministero del Tesoro dall’azionariato, condizione indispensabile per l’eutanasia. Si formò un nocciolo duro con capofila gli Agnelli, cui poi succedettero i soliti noti dell’industria e finanza nazionali (i Tronchetti, i Colaninno, gli Gnutti e il gruppo Benetton), che pasteggiarono liberamente sulla carcassa della nostra telefonia per poi passarla direttamente al libero mercato per le esequie definitive. La Tim, scorporata da tempo, era già stata svenduta nel 2005. Questo palazzone era una struttura di efficientissima ingegneria anti-sismica, cosa che invece manca nell’attuale sede, ove furono trasferiti i dipendenti, che, giova ricordarlo, agiscono in una zona già duramente colpita da un importante terremoto. Da poco tempo è stato finalmente reso noto che la proprietà dello stabile fa capo a tre società per azioni, le quali d’intesa hanno affidato a un’altra società immobiliare, La Prelios Spa (Mi), l’incarico di gestire l’edificio. Arrivo con il mio fido compagno di avventure urbex e chi trovo sul piazzale d’ingresso? Nientemeno che un camion, un’auto di servizio e una divisione di pompieri intenti a non so quale operazione. Simulo alcune foto di rito dall’esterno e il capo della pattuglia mi chiede se sono un giornalista, perché, nel caso, dovrebbe farsi fotografare con caschetto in testa. Lo tranquillizzo e devio per un sentiero laterale più utile per l’accesso, che so essere molto complicato. Il mio sodale mi raggiunge poco dopo e mi riferisce, divertito e sorpreso insieme, che l’allerta è stata sollecitata da un tizio sulla trentacinquina, che lamentava la scomparsa del proprio gatto, ipotizzando che si fosse infilato in qualche pertugio della rete o delle coperture lignee a protezione della struttura. In quel momento, vista l’apparente impenetrabilità della struttura, giuro che avrei voluto essere quel gatto. Percorse parecchie centinaia di metri intorno al complesso, dopo un lungo peregrinare avanti e indietro, decidiamo di entrare da un pertugio, scomodo come mai nessun altro. Molto a fatica riusciamo nell’intento, stupiti di avercela fatta, perché credo che abbiamo inconsapevolmente confermato la legge dell’impenetrabilità dei corpi. Una volta dentro, memorizziamo il piano di accesso, che ipotizziamo coinciderà con quello di uscita e ci addentriamo nei corridoi del catafalco, aprendo una delle tante porte di sicurezza, che abbiamo cura di non richiudere fissandola a terra con qualche oggetto, calcinaccio o bottiglia che fosse, operazione che ripeteremo non son so quante volte nel corso dell’esplorazione. Siamo nel corpo degli uffici, che percorriamo per tutti e sei i piani. Sembra di essere in una delle labirintiche costruzioni di Escher, con la differenza che qui i piani, rigorosamente modulari, si ripetono monotonamente e paiono confondersi l’un l’altro, quasi sempre svuotati di ogni mobilia e con la costante delle feroci vandalizzazioni subite. A terra, solo vetri infranti, calcinacci, bottiglie e bombolette spray dei writers che qui hanno imperversato apparentemente indisturbati. L’aula che doveva essere dell’auditorium è ridotta a uno squallore; del resto, circa due anni fa il palazzo ha subito la defenestrazione di molta mobilia ad opera di ragazzotti in tempesta ormonale, che hanno inteso rappresentare il proprio stato cerebrale creando il vuoto nelle stanze devastate. Concludo sfiduciato la desolante esplorazione con appena due foto, ma il mio compagno mi convince a visitare il piano terra, convinto di trovare spunti migliori: non si sbaglierà. Lì troviamo l’ingresso per i lavoratori con i tornelli per la verifica dei badge e le biforcazioni per l’accesso ai vari piani operativi tramite ascensori, ovviamente fuori uso. Proseguendo lungo il piano terra, incontriamo una piccola alla destinata ad asilo per i bambini dei dipendenti che lavoravano nel palazzone, con tanti di mini bagni (e mini water!). Su un’ampia ala del piano, si apre l’enorme mensa aziendale con, sul retro, le mastodontiche sale delle cucine, che rendono la dimensione dello sforzo quotidiano per allestire le diverse centinaia di pasti giornalieri. Tornati all’aperto, si notano gli spazi in cui sono ubicati i parcheggi, alcuni dei quali a vista, altri coperti da cupole, al cui interno si delineano percorsi che conducono all’interno della mega struttura operativa. Parcheggia, lavora e mangia sembra essere stato l’invisibile motto di stampo fordista sottinteso a quella catena di percorsi obbligati. Qui mi sono sbizzarrito con le foto, cogliendo gli intrecci dei tubolari sospesi o certe anse interne della costruzione, che richiamavano agli ampi saloni delle navi da crociera; il tutto cercando di evitare gli scorci più vandalizzati o quelli presi di mira dai writers occasionali. I chilometri percorsi nei corridoi cominciano a farsi sentire, così come un certo languorino. Usciamo, percorrendo a ritroso piani, corridoi bui e porte di sicurezza; inizialmente sbagliamo qualche uscita, ma rimediamo. Ormai il mostro spiaggiato sulla collina ha pochi segreti per noi. Effettuate le dovute contorsioni per il pertugio utilizzato per l’accesso, ci dirigiamo verso il piccolo parco verde laterale all’edificio. Una panchina all’ombra, la giornata si è fatta quasi torrida per il mese di aprile, ci offre un gradito riposo per gustare in pace il nostro panino. Scorgiamo due gatti, di cui uno sfila sospettoso non lontano da noi. Si ferma a guardarci e poi sparisce indifferente dentro una siepe. Mi sa che qualcuno lo sta ancora cercando e mi sa pure che lui non ha fretta di essere trovato. È la sua giornata fortunata: preferiamo il panino, non ci siamo persi alcun gatto e non siamo pompieri.