A piedi scalzi

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by Chiedi alla Polvere

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Marzo 27, 2018

ELVIS PRESLEY: “Blue Suede Shoes” (1956)

Don’t you step on my blue suede shoes./Well, you can do anything, but lay off of my blue suede shoes – Non pestare le mie scarpe blu di camoscio./Sì, fai tutto ciò che vuoi, ma lascia stare le mie scarpe blu di camoscio.

Suola, sottopiede, cambriglione, riempimento, guardolo, giretto, tacco. No, non si tratta della formazione di una squadra amatoriale di calcio a sette, bensì del gergo con cui nel mondo calzaturiero si specificano i componenti del fondo della calzatura, quello che, con termine più comune viene indicato come soletta, il perfetto equivalente di quello che rappresenta la scocca per le auto. Il mio ultimo sopralluogo riguarda appunto un suolificio, la cui attività, almeno a giudicare dall’unico calendario appeso a una parete della fabbrica, dovrebbe essere cessata nell’ormai lontano 2000. A così grande distanza di tempo dalla prevedibile dismissione, inutile sperare di trovare macchinari all’interno dell’edificio, che comunque non manca di fornire spunti. C’è una recinzione completa all’esterno, alta poco meno di un metro, che è possibile scavalcare con qualche attenzione, e ci si trova nel piazzale che segue la fabbrica per tre lati su quattro. L’ingresso è perfettamente visibile da un’ampia apertura sul lato sinistro, che immette sul primo salone al piano terra, perfettamente vuoto, ingombrato solo da un piccolo mucchio di solette per calzature. Sono visibili sparuti murales, tra cui mi ha dato gusto fotografare quello di uno strano tizio con cappello che mostra il dito medio a una decalcomania di Vittorio Sgarbi stampigliata sulla parete. Sul lato opposto del piano si trovano quelli che pomposamente sono stati chiamati uffici, in effetti consistenti in un misero stanzino disadorno, di cui residuano un voluminoso monitor di un computer di vecchia generazione e una stampante appena riconoscibile. La breve scala che porta al piano superiore dà qualche emozione in più, così come il salone sovrastante, amplissimo e di buon impatto visivo. Qui le muffe si sono impadronite velocemente di larga parte del pavimento, favorite dall’acqua piovana che entra senza problemi dal grosso squarcio presente nella copertura. A terra ci sono resti di misteriosi involucri metallici e vaste pozze d’acqua, invase da muffe variopinte. Il salone sul lato estremo è quello che porta a un’altra parte più preservata, caratterizzata da pareti in cartongesso ormai in via di dissoluzione e da drappi che forse erano le coperture di macchinari, ormai impigliati fra loro o abbarbicati a qualche struttura metallica vicina. Il terzo e ultimo piano è molto malmesso e presenta la caduta completa di una vasta tamponatura, per cui si scopre il panorama dello skyline della zona che, a dirla tutta, è piuttosto deprimente. Non è escluso che questo piano ospitasse anche le stanze riservate al proprietario, poiché si notano i resti di sanitari un po’ migliori di quelli trovati al pianterreno e di un lavabo forse ad uso cucina. Uscendo, faccio caso a un polveroso avviso rivolto dalla dirigenza ai dipendenti circa la poca attenzione riservata ai macchinari, seguita dal puntuale richiamo alla minaccia di sanzioni pecuniarie e amministrative per gli inosservanti. Non so dire se la contorta sintassi e il numero, quello sì industriale, di errori ortografici possa aver impedito la riuscita della minaccia: purtroppo non c’è nessuno cui poterlo chiedere.

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