PLASTIC ONO BAND: “Give peace a chance” (1969)
Ev’rybody’s talking about/revolution, evolution, masturbation,/flagellation, regulation, integrations,/meditations, United Nations,/congratulations./All we are saying is give peace a chance. – Tutti parlano di/rivoluzione, evoluzione, masturbazione,/flagellazione, norme, integrazioni,/meditazioni, Nazioni Unite,/congratulazioni./ Tutto ciò che noi diciamo è: date una possibilità alla pace.
Provenendo dalla statale Settempedana, in prossimità della località Selvalagli, un cartello indica l’Eremo di Santa Maria della Macchie, seguendo il quale si arriva a destinazione in meno di un chilometro. La strada è stata asfaltata da pochi mesi, ma si percorre bene, anche se negli ultimi cento metri diventa molto stretta e ripida. Il complesso monastico si trova sulla sinistra in una piccola radura seminascosta da una boscaglia. C’è un varco per entrare con il mezzo e da lì si può ammirare la semplice costruzione, in origine del XII secolo, più volte rimaneggiata lungo tutto il medioevo. Il complesso è impostato su evidenti canoni romanici in pietra arenaria bianca e rosa, ma sono anche evidenti i segni gotici per la presenza di piccoli archi a sesto acuto e per la comparsa di diverse decorazioni. Forse ancora più interessanti erano gli interni con il graziosissimo piccolo chiostro e la presenza di svariati affreschi. Purtroppo i terremoti che hanno duramente colpito la zona negli ultimi cinquant’anni hanno determinato la chiusura del sito, impedendo la visita dei locali, tant’è che posso proporre solo foto datate intorno alla metà degli anni 90 di alcuni affreschi che credo siano ancora presenti, mentre di altri so per certo che hanno trovato ricovero in luoghi più sicuri, in attesa del recupero della costruzione. Il panorama che si gode dalla radura è meraviglioso e riparato dai rumori del traffico, problema questo che non assillava certo i monaci eremiti che abitavano il luogo, intenti com’erano alla preghiera e alla coltivazione dei campi e dei boschi circostanti. Talvolta il monastero veniva visitato dai pellegrini che non potevano permettersi un alloggio in locanda e qui ricevevano un riparo, una fonte d’acqua e una zuppa calda. Ma, ancor più, questo luogo, in virtù della privilegiata posizione tra gli importanti comuni medievali di Camerino, San Severino e Matelica, di frequente in lotta fra loro per il dominio dei territori, risultava uno spazio franco, non conteso, capace dunque di ospitare i Da Varano camerti, gli Smeducci settempedani e gli Ottoni matelicesi per tentare di dirimere le controversie in atto e anche, perché no, di interrompere la tanti inutili battaglie senza perderci la faccia. I numerosi affreschi che erano presenti all’interno rappresentavano una devozione che seguiva l’iconografia tradizionale cristiana con la proliferazione di pitture incentrate sulla Madonne, declinate in varie forme e sulla devozione ai santi campestri per definizione: Sant’Antonio, protettore degli animali, San Rocco, invocato contro la lebbra e San Donnino a riparo dall’idrofobia. Si tratta di pezzi tutti ascrivibili a mani popolari, non di particolare pregio pittorico, nonostante in passato si sia individuata una scuola del De Magistris per alcuni di essi. In effetti, si tratta essenzialmente di pezzi determinati dalla tendenza agli ex-voto, sebbene per alcuni si intravedano mani di non disprezzabile mestiere. Esiste anche una Madonna del Latte, le cui fattezze rimandano ad una pittura di origini rurali e fanno supporre frequenti commissioni a maestranze rurali. L’insieme è comunque degno di interesse e contribuisce – forse dovrei meglio dire contribuiva – a mantenere intatta la sensazione di semplicità e pace che pare essere il vero genius loci del posto.