Grani dolorosi

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by Chiedi alla Polvere

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Aprile 30, 2022

LEONARD COHEN: “Darkness” (2012)

I got no future,/I know my days are few./The present’s not that pleasant,/just a lot of things to do./Ithought the past would last me,/but the darkness got that too. – Non ho futuro,/so che mi restano pochi giorni./Il presente non è un granché,/solo molte cose da fare./Pensavo che il passato mi sarebbe rimasto,/ma il male si è preso anche quello.

Chi va al mulino s’infarina, recita un vecchio proverbio, ma, in quello che ho visitato, di grano e granaglie non ci sono più tracce da un pezzo, essendo stato dismesso nell’immediato dopoguerra e riattivato saltuariamente fino agli anni settanta. È stato uno dei più importanti e antichi manufatti industriali del maceratese, tant’è che le prime notizie che lo riguardano risalgono al 1815, allorquando fu saccheggiato dalle truppe tedesche impegnate contro quelle guidate da Gioacchino Murat nella famosa battaglia di Tolentino, che molti storici considerano come la vera prima guerra d’Indipendenza. Il mulino dovette sopportare nel tempo altri eventi negativi, tra cui i disastrosi effetti di una piena del fiume Chienti (1827) e un incendio (1905) che lo ridusse in macerie. Riedificato, fu la sfortunata destinazione di un padre che si avviava con suo figlio a fare provvista di pane una mattina del giugno 1944. Quand’erano prossimi al mulino, incontrarono un paio di conoscenti che li invitarono ad andare con loro a curiosare sotto il ponte del fiume Chienti, dove sembrava che fossero state abbandonate delle armi. Poco prima che i quattro si portassero sul luogo stabilito, furono fermati da alcuni colpi d’arma da fuoco sparati da soldati tedeschi che erano stanziati nelle vicinanze. Mentre i due conoscenti si misero in fuga, Pietro volle andare incontro ai tedeschi per dimostrare la loro buona fede. Vennero così fatti prigionieri e condotti nella casa di proprietà di un gerarca del luogo in cui si era insediato il Comando militare. Verso sera, padre e figlio furono condotti in mezzo a un campo di grano e fucilati. I loro corpi restarono insepolti e solo dopo una decina di giorni i tedeschi incaricarono dei paesani di seppellirli. Il mulino si raggiunge solo attraversando una boscaglia di una ventina di metri, annunciata da uno stentato sentiero tra la vegetazione che ben presto si rivela popolato di arbusti che ostacolano il cammino e, quel che è peggio, da una fitta corona finale di rovi, che a tratti lasciano intravedere il manufatto industriale. Uscito finalmente dal roveto (e benedico la scelta di indossare dei provvidenziali guanti da barca), posso ammirare il lungo edificio che occupa un centinaio abbondante di metri, maestoso nei suoi quattro piani e malridotto per gli evidenti crolli che ne hanno minato la compattezza alle estremità. Se possibile, gli interni sono ancora più compromessi con intere aree crollate di netto e il generale stato delle scale a pavimenti che non induce ad approfondire più di tanto la perlustrazione. Il buio pressoché totale, fatte salve poche aree che ricevono un po’ di luce dall’esterno, è l’ambiente che trovo. Sono poche le zone che ancora custodiscono le stigliature rimaste, tra cui riconosco una setacciatrice in legno in discrete condizioni e un granulatore ridotto a pezzi. Il primo piano, interamente svuotato e apparentemente solido, mi è parso l’unico visitabile senza rischi, anche se lo stato del pavimento ligneo, che ai suoi bei tempi avrà sopportato con disinvoltura carichi considerevoli, mi ha dato subito l’impressione che avrebbe potuto essere messo in seria crisi dai passi ben scanditi di una coppia intenta a un tango argentino. Mi sono limitato a una vista ammirata e ad una foto veloce; per il tango non disponevo né della gentile compagnia né della calzatura adatta e quindi me ne sono ritornato al piano terra, dove ho utilizzato di nuovo il faretto a calotta che tenevo in testa. Era già ora di ritornare e pregustavo una bella bottiglia d’acqua da bere di lì a poco (c’era una calura quasi estiva), ma non avevo fatto i conti con i rovi che, con la loro coltre compatta, richiudevano il sentiero da cui ero passato. Ho cambiato percorso almeno tre volte, rimanendo puntualmente impigliato in ogni dove. Porto ancora sullo stinco destro i segni del colpo secco che ho ricevuto da un arbusto corto ma duro, che mi ha fatto ricordare i calci che prendevo quando giocavo all’ala. In un modo che non so descrivere, ho guadagnato l’uscita venendo fuori da un punto casuale della boscaglia. L’auto, che avevo parcheggiato proprio avanti al sentiero d’ingresso, era a una cinquantina di metri e in quel momento mi è sembrata più bella di una Citroen Pallas. Salvo, ma non ho dubbi che, d’ora in avanti, guarderò il pane con altri occhi.

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