PEARL JAM: “Last exit” (1994)
No time to question why’d nothing last./Grasp and hold on./We’re dyin’ fast./Soon be over and I will relent. – Non c’è tempo di chiedersi perché niente possa durare./Aggrappati e tieniti forte./Moriremo in fretta./Presto sarà finita e io mi placherò.
Questo convento è conosciuto in ambito urbex con i più svariati nomi di fantasia, ma per me è sempre il convento dell’oro, nel rispetto della consuetudine che tiene conto della contaminazione dialettale del laurum, ovvero la classica pianta di alloro, padrona incontrastata della frondosa zona collinare che lo ospita. Il posto me lo puntavo da diversi anni, ma stupidamente rimandavo ogni volta la visita, fino a quando le ripetute segnalazioni in rete che indicavano il sempre più deteriorato stato dell’immobile mi hanno convinto a rompere gli indugi. Credo di aver fatto appena in tempo, perché l’edificio e gli affreschi al suo interno mi sembra siano giunti a un punto di non ritorno. Troppi e troppo lunghi sono stati i ritardi, le indecisioni e le inanità di chi avrebbe dovuto averne cura e così si è arrivati alla desolante situazione attuale in cui una visita alla struttura si è rivelata simile a un sopralluogo autoptico. Come da prassi, prima di ogni autopsia, è doveroso consultare il cartellino anagrafico della salma per accertarne età e segni costitutivi e, dunque, procedo con un veloce excursus storico sulla struttura. L’origine del complesso conventuale di Colle dell’Oro si fa datare al 1441 ed è strettamente legata alla presenza di San Bernardino da Siena, che scelse personalmente il luogo della fondazione. Nel corso dei secoli il convento ampliò la sua attività originaria fino ad ospitare anche un laboratorio per la tessitura della lana, tanto da raggiungere la considerevole cifra di un’ottantina di frati fissi. Nel 1866 la struttura, a seguito del decadimento degli ordini religiosi, fu affidata al Comune locale che, nel 1928, decise di riadattarla per accogliere gli anziani, con l’inaugurazione formale un anno più tardi e l’intitolazione col nome del fratello del Duce. Il Podestà del Comune nel 1933 deliberò la donazione dell’immobile e del terreno attiguo direttamente alla Casa di riposo. Nell’atto deliberativo la cessione si sarebbe mantenuta tale solo se l’immobile avesse continuato a svolgere interventi assistenziali per gli anziani, altrimenti la Casa di riposo sarebbe tornata di proprietà comunale, ma fu solo nel 1964 che un atto notarile ufficializzò il passaggio con l’attività che proseguì fino al febbraio 1989, data che segna formalmente il ritorno alla proprietà comunale. Nonostante il successivo avvento di una cooperativa sociale, i servizi cessarono e l’immobile conventuale, comunicante con i locali dell’adiacente Casa di Riposo, fu di fatto abbandonato con la conseguenza che ora, minato da crolli a dai segni dei diversi terremoti che hanno colpito la zona, versa in uno stato di estrema precarietà. Avvolto com’é da una fitta selva, il convento è totalmente nascosto alla vista né può più essere raggiunto dalla chiesa adiacente così come dalla Casa di Riposo, dismessa da decenni, che campeggia con le sue belle vetrate sul cortile che introduce alla stessa chiesa. Io e il solito amico, ormai fedele compagno delle escursioni umbre, una volta oltrepassata la selva – e vi darò i sanguinosi dettagli più sotto – siamo improvvisamente sbucati proprio all’entrata del convento, di cui abbiamo notato subito il penoso stato delle mura perimetrali. Se possibile, dentro la situazione è ancora peggiore: stanze senza più memoria o segni della loro destinazione originaria, corridoi invasi dai calcinacci, porte e finestre sfondate dal vento e, al piano superiore, edera e vegetazioni spontanee a coprire parte delle scale, al punto da rendere intransitabili diverse aree. Una sola stanza di tutto il complesso era quella che immaginavo potesse ancora essere capace di fascino e, nonostante le devastazioni del tempo e i segni inequivocabili di un rapido e, temo, irreversibile degrado, io e il mio amico rimasti letteralmente folgorati dal refettorio, in cui legni imbarcati e ricurvi per effetto degli agenti atmosferici che entrano dalle finestre antistanti, ormai bocche vuote, sono la misera corona di due affreschi contrapposti sui lati lunghi della stanza. Uno, il più piccolo, è sormontato da una minuscola balaustra per la predicazione, ormai irraggiungibile per la perdita del passaggio. Non sono neppure riuscito a scorgere una qualche leggibilità nelle confuse macchie di colore che circondano la parete, tanto per dire del misero stato in cui versa l’opera. Di fronte, e quindi alle spalle di chi entra, c’è il pezzo forte, ovvero i resti dell’affresco principale, che rappresenta San Francesco che parla al popolo della città nel cui territorio ricade il convento. In realtà, la maggior parte delle figure non è ben riconoscibile ma nell’insieme la vividezza dei colori ancora appare, sebbene quasi tutti ormai virati al blu, come se lo scorrere del tempo abbia saputo preservare solo quella dominante. L’impatto visivo è comunque qualcosa di veramente emozionante, rafforzato dalla scritta “Salve” che compare in un ovale sottostante, ancora nitida e perfettamente leggibile. Dalla stanza attigua al refettorio s’imbocca un lungo e stretto corridoio che dovrebbe immettere alle altre ali del convento, ma, come già detto, ormai resta pochissimo. Messa così, sembra che l’esplorazione sia stata senza problemi, ma le cose sono andate ben diversamente. Sapevo di un potenziale ingresso dal giardino della chiesa, ma ormai tutta la zona è di proprietà privata, per cui io e io mio compagno siamo ritornati all’esterno e abbiamo percorso l’intero perimetro del convento fino a quando il mio solerte sodale si è accorto di un piccolo varco nella recinzione, da cui siamo entrati per conquistare la preda, perfettamente nascosta da quella che doveva rivelarsi una selva oscura. In realtà, in pochi minuti di dura salita siamo arrivati al convento, sia pure offrendo i nostri arti alle malefiche piante che al nostro passaggio rivelavano aculei e una precisione chirurgica nell’infilarsi tra le nostre carni. Il peggio, però, doveva ancora venire, dato che l’attrezzatura fotografica l’avevo lasciata in auto, disperando di trovare un modo per entrare. La via più breve è la retta, almeno questo è uno degli sparuti ricordi dei miei incostanti studi di geometria, ma il mio amico, che forse ha approfondito studi trigonometrici, la pensava diversamente e si è incamminato a passo di lepre per un nuovo sentiero, apparentemente libero dai rovi, per provare a guadagnare un’uscita più comoda. Peggio non poteva capitarci. In breve quel sentiero si è rilevato un’oscura selva dantesca aggravata dal fatto che non c’era nessun Virgilio a soccorrerci. In breve, dopo almeno mezz’ora di peregrinare, su mia insistenza, ci siamo buttati da una piccola rupe, trovandoci in un campo arato, molto distanti da dove avremmo dovuto essere. Due cani non molto lontani abbaiavano così forte che sembravano frustati a sangue. Non ho mai rimpianto così tanto di non avere in mano il mio Manfrotto per un’eventuale difesa. Per fortuna le povere bestie, in realtà due grossi cani da pagliaio, erano in un recinto chiuso e, tutto sommato, mi sono sembrati di indole mite, almeno così li ho classificati dopo aver provato a tranquillizzarli con gesti e parole concilianti. Certo è che il recinto ha tranquillizzato soprattutto me; del contadino, fortunatamente, nessuna traccia. Abbiamo attraversato il tratto del campo e ci siamo trovati nel giardino della villa attigua con tanto di bambini sulle altalene e di famiglie intente a far bisboccia. Siamo passati oltre in fretta, facendo attenzione a mimetizzarci fra le piante, anche se se i piccoli erano intenti ai giochi e i grandi sembravano molto più interessati al vino che alla nostra presenza; quindi abbiamo doppiato un primo cancello e ci siamo trovati di fronte a un altro cancello ad apertura radiocomandata. Ho rifiutato decisamente la proposta del mio amico di parlamentare con i proprietari, anche perché avevamo un aspetto alla Rambo dopo uno dei suoi soliti inseguimenti, e mi sono infilato in un piccolo varco semisollevato della recinzione laterale, scivolando nella classica posizione del leopardo raccomandata dai carristi e dai parà della Folgore, categorie alle quali mi sono sempre onorato di non appartenere. Ho aiutato il mio amico a fare altrettanto e finalmente siamo sbucati su una strada di campagna che il mio compare, dopo una rapida consultazione su google maps, ha dichiarato trionfalmente essere appena a 45 minuti a piedi dal convento. Una mia rapida invocazione ad enti superiori ha sortito effetti insperati e poco dopo mi si è aperto uno stradello, sempre in ripida salita, che ci ha portato a destinazione in cinque minuti. Auto, recupero attrezzatura forografica, borraccia d’acqua svuotata e si riparte per il convento. Stavolta, però, la guida la faccio io. Temevo che il mio sodale si fosse sfiduciato dopo questa peripezia e le molte ferite da rovi, ma, da ormai provetto urbexer, ha detto che senza avventura c’è meno gusto e poi che quel refettorio valeva bene l’intermezzo forestale. Queste sì che sono soddisfazioni!