La lebbra nera

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by Chiedi alla Polvere

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Settembre 29, 2024

PEARL JAM: “Thumbing my way” (2002)

All the rusted signs we ignore throughout our lives,/choosing the shiny ones instead./I turned my back, now there’s no turning back. – Ignoriamo tutti i segni arrugginiti nel corso delle nostre vite,/scegliendo al loro posto quelli scintillanti./Ho voltato le spalle, ora non si può più tornare indietro.

 

Papigno era conosciuta fino agli anni settanta come la città nera, per via dei fumi delle attività industriali generati dalla combustione di varie sostanze chimiche, che ricoprivano i tetti delle abitazioni e s’insinuavano nei polmoni degli abitanti. Era la lebbra nera, così fu nominata da un poeta operaio che lavorava nel sito produttivo. Il maestoso complesso industriale di Papigno (TR), ampio 105.450 mq di cui 34.500 coperti, è uno dei più grandi siti di archeologia industriale dell’Italia centrale e la stessa Unesco lo ha dichiarato uno dei siti industriali abbandonati più imponenti al mondo. Collocato all’inizio della Valnerina a un chilometro dalla Cascata delle Marmore, ha profondamente trasformato questo paesaggio, segnato dagli imponenti edifici in cemento armato e laterizi, dalle condotte forzate per la centrale idroelettrica, dalla cava sul Monte S. Angelo e dalla teleferica in acciaio reticolare per il trasporto della cianamide che supera il corso del Nera. Lo stabilimento di Papigno era destinato alla produzione di carburo di calcio, sostanza chimica largamente impiegata nel campo dell’illuminazione, pubblica e privata, a mezzo di gas acetilene. Sorse nel 1901 come principale impianto della Società Italiana del Carburo di Calcio Acetilene e Altri Gas (SICCAG, costituita nel 1896). Nel 1911 venne dotato di una grande centrale idroelettrica per le necessità dei processi elettrochimici. Fu scelto questo luogo per l’insediamento industriale, perché consentiva di ottenere a basso costo le materie prime necessarie per la produzione del carburo di calcio: permetteva infatti di sfruttare il maggior salto utile delle acque derivate dal fiume Velino per la produzione di energia elettrica e i giacimenti di calcare del Monte S. Angelo. Aveva la peculiarità di essere un’officina ricavata nella roccia diversi metri sotto il livello dello stabilimento elettrochimico, in modo da aumentare il saldo geodetico La presenza di una notevole forza idromotrice (l’acqua delle vicine cascate delle Marmore) ha permesso la costruzione di centrali elettriche e di aziende che potessero sfruttare questa risorsa. Inevitabile conseguenza fu il pesante inquinamento da fumi e polveri ha modificato l’aspetto del territorio circostante. Con l’inizio delle operazioni belliche degli anni quaranta e l’entrata in guerra dell’Italia si verificarono forti difficoltà di rifornimento di carbone e la produzione fu radicalmente ridimensionata fino alla sospensione del 1944, indotta anche dai bombardamenti e dalle predazioni operate dalle truppe tedesche in ritirata. La ripresa produttiva del 1945 si dovette confrontare con la caduta della domanda del carburo e della cianamide, che ebbe uno dei suoi momenti di picco negli anni Sessanta. La promulgazione della legge sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica del 6 dicembre 1962 svuotò di significato il grosso della produzione residua del complesso, tanto che nel 1964 lo stabilimento fu acquisito dalla Terni Industrie Chimiche, emanazione della statale FINSIDER. Nel 1967 si ebbe il passaggio ad un altro ente nazionale, l’ENI. Nonostante l’enorme bisogno di fertilizzanti chimici ad uso delle nostre risaie e pur in presenza di un prezzo di vendita ancora piuttosto concorrenziale, lo stato scelse di favorire l’omologo settore chimico francese togliendo di mezzo il nostro scomodo competitore e nel 1973 fu decisa la chiusura definitiva dello stabilimento. Una parte della vasta area è stata acquisita dal Comune tra il 1997 e il 2003 e parzialmente recuperata per creare un centro di produzione cinematografica (Umbria Studios). Si è anche proceduto ad una bonifica dell’amianto, ma non si hanno notizie circa quella del terreno su cui insisteva il complesso e sulle conseguenze delle pluridecennali infiltrazioni di materiali chimici sulle sottostanti acque del fiume Nera. Il fermo di oltre cinquant’anni delle attività produttive originarie ha determinato la comparsa dei tipici fattori di degrado: ruberie del rame e delle parti amovibili delle gigantesche turbine, ruggine, muffe e parziali crolli degli altissimi solai in legno che ricoprivano i saloni interrati della zona Velino, probabilmente la più affascinante dell’intero sito. Questa è situata all’ultimo piano del seminterrato che sostiene una parte dell’intera struttura; qui il segno del tempo ha creato una scenografia imponente e tragica sulla fine del colosso industriale. Io e il mio fido compagno di avventure urbex siamo rimasti ore ed ore ad ammirare i diversi scenari di un abbandono che non esito a definire unico per la tragicità e maestosità che ci si rivelavano ad ogni sguardo. La mia reflex ha scattato senza posa (e sì che da vecchio analogico sono abituato a centellinare gli scatti) e il set che propongo, sebbene insolitamente numeroso, è stato molto decurtato rispetto al bottino totale. Ho indugiato soprattutto nella famosa sala Velino, introdotta da una scala a chiocciola sufficientemente ampia che immette all’ultimo piano seminterrato del complesso, impreziosito da marmi pregiati a sostenere la struttura con balaustre anch’esse in marmo e corridoi aperti che si biforcano verso le altre sale, disegnando una vista complessiva da stordimento stendhaliano. Il pavimento che porta alla turbina principale mostra ancora una piastrellatura a rombi che non avrebbe sfigurato in un’abitazione civile degli anni quaranta, a dimostrazione della cura e dell’attenzione riservata ai particolari costruttivi della fabbrica. Tutt’intorno campeggiavano i resti di macchinari giganteschi, simili a enormi balene spiaggiate, capaci di incutere timore ancora oggi a dispetto della loro evidente dismissione, vicino ai quali avevi le dimensioni di un ciottolo sotto un costone roccioso. Possenti ganci sospesi troneggiavano in alto agganciati a enormi pulegge e mostravano la loro trascorsa potenza di carico, indicata con varie segnalazioni che arrivavano fino a 110 tonnellate. Sale comandi con le cabine ridotte a quinte rugginose, i cui oblò ormai stanno cedendo pur mostrando ancora come occhi fuori dalle orbite i termometri di controllo per il corretto pompaggio del  calore; sterminate sale, ora vuote, ora semiallagate per il ristagno dell’acqua piovana, che richiamano a misteriose funzioni; scale in pietra o ferro, non tutte praticabili, che introducono a stretti corridoi con sbocchi laterali su altre stanze ancora più scure. Un meraviglioso e minaccioso mondo che non siamo riusciti ad esplorare interamente, anche perché reduci da una precedente visita urbex, che ci ha appagato ma ci ha tolto tempo ed energie. Non so se torneremo ancora a visitare questo sito per completare l’indagine, magari concentrandola sulla sala Claude, quella destinata ai macchinari per l’estrazione dell’azoto dall’aria, ma quel che è certo è che il sito è di quelli che hanno un impatto fotografico di incredibile potenza, sicuramente uno dei migliori mai sperimentati in dodici anni di urbex. Il tempo, come sempre, è tiranno quando si visitano posti del genere. Le ore scorrono veloci nel percorrere centinaia scale per scandagliare sale su sale buie e anguste con l’indispensabile attrezzatura ad appesantire i passi e la fatica, come sempre, si avverte tutta insieme quando prendi la via del ritorno. In meno di due ore, se il traffico lo consente, dovremmo essere a casa, però stavolta il rientro, dopo emozioni così intense, assomiglia a un dispiacere.

 

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