Il convento selvatico

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by Chiedi alla Polvere

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Agosto 11, 2020

METALLICA: “Fade to black” (1984)

No one but me can save myself, but it’s too late./Now I can’t think, think why I should even try./Yesterday seems as though it never esiste./Death greets me warm, now I will just say good-bye. – Nessuno può salvarmi a parte me, ma è troppo tardi./Ora non riesco a pensare, pensare perché dovrei persino provarci./Ieri sembra che non sia mai esistito./La morte mi saluta amichevolmente, adesso dirò addio.

“Beati coloro che avranno le soffiate” potrebbe essere l’appendice profana delle beatitudini evengeliche, di certo la più desiderata da chi ha la passione dei luoghi abbandonati, ma è qualcosa che purtroppo capita molto raramente. Non è casuale che il luogo vi presento stavolta sia stato il frutto di ricerche pazienti, lunghe e difficili. Proprio quando stavo per arrendermi, ho rintracciato fortunosamente una vecchia e preziosa pubblicazione sui luoghi sacri di quel territorio e a quel punto è scattato il meticoloso scandaglio su Google maps. Ore ed ore a cercare una strada che conducesse al posto magico, ma ogni percorso moriva infallibilmente nella selva, molto lontano dal punto da raggiungere. Stavo nuovamente per rassegnarmi, quando ho notato che una delle tante curve che portano alla sommità del monte faceva una rientranza, l’unica lungo tutto il percorso. Occasione imperdibile per parcheggiare l’auto, altrimenti impossibile da sistemare sulla stretta carreggiata i cui tornanti si susseguono senza sosta per diversi chilometri. Per colmo di fortuna, come ho potuto verificare su Google maps, quel piccolo slargo si trovava a meno di 100 metri in linea d’aria dal mio obiettivo, per cui si poteva colpire. La visita è stata la parte pomeridiana di uno dei tour umbri che divido col mio consueto sodale di avventure, a cui sto propinando una serie di obiettivi degni di una via francigena, però di stretta osservanza urbex. Reduci dalla visita mattutina a un paese fantasma che si trova nella stessa provincia, in qualche decina di chilometri abbiamo puntato il nuovo obiettivo, davvero poco conosciuto e ancor meno frequentato. Una volta giunti alla famosa curva, scavalcato il guard-rail, io e il mio socio ci siamo immessi su un sentiero stretto e scosceso che sovrastava la piccola forra sottostante, ma, a parte un po’ di fogliame scivoloso, è stata quasi una passeggiata di salute e ben presto ci siamo trovati sul vialetto alberato, con tanto di panchine semisommerse dalla vegetazione, che immette all’ingresso della chiesa. Le poche notizie rintracciate a fatica riferiscono di una storia iniziata nel 1494 per effetto di una disposizione del papa Alessandro VI, che accordò una donazione ai Frati Minori Osservanti presenti sul territorio, con lo scopo di edificare un convento sfruttando l’impianto di una chiesa preesistente. I frati in questione se la presero comoda al punto che solo nel 1568 si trasferirono nella nuova sede, quando il pontefice era morto già da un pezzo. Simpatici questi frati: osservanti sì, ma ubbidienti senza fretta. I frati intitolarono il convento ad un santo molto venerato nelle campagne italiane e lo occuparono fino al 1810, quando l’immobile passò forzosamente al demanio in occasione delle soppressioni ecclesiastiche disposte dal Governo francese. Il convento era fornito di ventidue camere, un refettorio, alcune stanze di lavoro, cucina e cantina; stranamente non disponeva di una biblioteca. In chiesa si trovavano cinque altari, tanti quante le confraternite presenti, e una sagrestia. E qui finisce la storia vera e propria del convento, che non fu mai riaperto dopo il provvedimento napoleonico. Esistono due targhe murali che ricordano la sosta delle truppe garibaldine prima della battaglia di Mentana del 1867 e il passaggio del bene, tre anni più tardi, alla locale Società Operaia di Mutuo Soccorso, che vi stabilì la propria sede. Molto tempo dopo, siamo già nel tardo secolo scorso, il convento passò definitivamente al Comune del luogo, che per un periodo vi ospitò le famiglie indigenti. Poi, più nulla, se non l’abbandono. La Chiesa, a navata unica con rudimentali cappelle sporgenti, conserva un grande soffitto ligneo seicentesco, ormai quasi completamente perduto. Il convento, molto compromesso, si presenta con un maestoso porticato cinquecentesco in pietra e cotto, completamente invaso dalla vegetazione. Dal chiostro si accedeva ad un sotterraneo, di cui non siamo riusciti a trovare l’accesso per via della foltissima vegetazione, per molti tratti impenetrabile. Peccato, perché dovevano essere presenti parecchi affreschi, ma non esistono dubbi sul fatto che essi siano ormai illeggibili, dato che le ultime notizie sul loro stato, risalenti a una trentina d’anni fa, riferivano di una situazione fortemente deteriorata. Quando siamo arrivati all’ingresso del primo edificio, lo abbiamo trovato sbarrato, così come il cancello laterale che dà sul chiostro, chiuso con tanto di catena e lucchetto, al punto che ci siamo dovuti inventare un’entrata dal retro, praticamente oltrepassando tutto il complesso, tentando di trovare una via per una malmessa scala in pietra di lato al giardino. I nostri sforzi sono stati ripagati quando ci siamo imbattuti in un varco della costruzione poco prima che il roveto ritornasse ad essere impenetrabile. Siamo entrati giusto all’interno del chiostro, segnato dalle doppie finestre a bifora, letteralmente circondati dalla vegetazione, un’autentica selva vietnamita, che ammiravamo al riparo della struttura. Il complesso ormai mantiene solo le mura e qualche stanza all’interno. Il piano superiore è quello che un tempo era destinato alle celle dei frati, ma non c’è più nulla che ne suggerisca la presenza. Si notano crolli dei soffitti in diverse stanze e la meravigliosa serie delle finestre sul cortile. L’effetto scenico è comunque di grande suggestione. Affacciandosi sul chiostro, si nota solo un mare di verde selvaggio da cui affiorano a malapena i rostri del cancello d’entrata. Doveva essere un posto magnifico, anche se ora sono presenti unicamente i classici segni della decadenza. Torniamo indietro con la consapevolezza di aver visto, forse per ultimi, un luogo magico e affascinante, sebbene degradato. Un’altra meraviglia d’arte abbandonata dall’uomo e consegnata colpevolmente allo sfacelo.

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