NICK DRAKE: “I was made to love magic” (1969).
I was made to love magic,/all its wonder to know,/but you all lost that magic/many many years ago. – Sono nato per amare la magia, per conoscere tutta la sua grazia, ma voi tutti avete perduto quella magia/tanti tanti anni fa.
Cinque anni dopo aver vinto il Premio Oscar con “La vita è bella”, nel 2002 Benigni uscì nelle sale cinematografiche con il suo “Pinocchio”. L’opera ottenne il David di Donatello per la miglior scenografia e i migliori costumi; inoltre si aggiudicò il Nastro d’Argento per la miglior colonna sonora ad opera di Nicola Piovani. Fu uno dei film più costosi mai realizzati nella storia cinematografica italiana (45 milioni di euro) con la malcelata ambizione di competere per un nuovo Oscar, senza però riuscire ad ottenere una sola nomina. Alla fine del suo percorso ai botteghini nazionali e d’oltreoceano, il film riuscì a superare un incasso complessivo di poco superiore ai 41 milioni di euro, dunque insufficiente a raggiungere il pareggio degli esborsi effettuati. Addirittura negli Usa il film di Benigni fu ritenuto dalla critica dell’epoca il terzo peggior film degli ultimi dieci anni, scontando le prestazioni attoriali di Benigni e della moglie, da lui scelta per impersonare la Fata Turchina, marchiate come scadenti e inadeguate dalla critica Usa, per una volta compatta nella valutazione negativa della pellicola. Da allora la casa della Fata Turchina e le altre scenografie giacciono abbandonate in un immenso magazzino umbro, che ospita i resti delle scenografie e allestimenti che furono creati per l’ambientazione degli ambienti dell’opera. L’effetto che si ha nel visitate i giganteschi cartoni, cartapeste e impalcature di sostegno è insieme straniante e affascinante e tale da creare la sensazione di un mondo a parte, potenziato dal fatto di trovarsi inserito in un altro modo, quello dei mastodontici capannoni industriali che lo ospitano, che sembra quello di un orco immenso con tante voracissime bocche. Qui e là affiorano i disordinati reperti del paese dei balocchi e delle incantate costruzioni che sono solo quinte senza profondità; fuori dal capannone centrale rimangono i poveri resti della spaventosa balena, ormai semisommersa dalla vegetazione, da cui affiora a fatica la pinna, un tempo minacciosa e ora anch’essa soffocata da folti cespugli spontanei. Più discosti, nell’ampio piazzale antistante, in un ordine che sembra solo frutto della casualità, appaiono una biga rossa e una serie di casette grige, a loro modo aggraziate, probabilmente in origine destinate ad un fondale lontano. Per me e il mio fedele compagno di avventure umbre, la vista di questo insolito spettacolo è stata stupefacente e credo che la mancata visione del film ci abbia agevolato, anche perché non siamo mai stati ferventi ammiratori del Benigni attore. Personalmente, lo stimavo di più ai tempi di “Televacca” (1976) col personaggio del Cioni e, a seguire, con le incursioni piratesche nei rari programmi di rottura dell’epoca. Ora mi pare che la sua giovanile verve anarchica sia stata instradata da decenni su un percorso da giullare mainstream, ben più comodo e redditizio. Forse non è casuale che fra tutti i reperti rintracciati nei capannoni sia sparito, fra i tanti, proprio il mitico burattino di legno di collodiana memoria, ovvero il personaggio che incarna la metamorfosi. A questo riguardo, ho scoperto che, all’epoca del flop commerciale del film, a Benigni fu consegnato il “Tapiro d’Oro”, che lui successivamente gettò in un cassonetto. Purtroppo per lui, la troupe di “Striscia la Notizia” lo recuperò per poi riconsegnarglielo, ma Benigni si giustificò goffamente, dicendo che gliel’avevano rubato. Ah, Pinocchio, Pinocchio!